Thursday, November 30, 2006

l'ultima battaglia campale

Tanai rabbrividisce nel vedere nuvole e fulmini: «Questo giorno sarà ricordato nelle cronache e molti non vi crederanno -mormora- Persino gli alberi hanno paura».
«Allora cosa ne pensi? Dovremmo non dovremmo?» lo interrompe Ainnir.
Tanai non hai idea di cosa stia parlando, era perso nei suoi pensieri, ma comunque risponde: «Chiameremo Corfard, il cacciatore. Lo conosco bene. In tutto manderemo quattro uomini, ma delle vostre famiglie solo un uomo ciascuna». Né gli Ainnir né gli Iboar sono molto convinti di queste disposizioni, anche perché temono per le questioni di tradimento sollevate dal figlio di Ainnir.
«E il quarto sarò io» aggiunge Tanai irremovibile. Nessuno osa fiatare.

Quando scollinano qualcosa non va: è come se dalla terra venisse un rimbombo. Tanai per un attimo vede oltre le colline: una battaglia infuria tra Celti, Pitti e anche grossi orsi. Rapida come è venuta la visione sparisce.

Nell’occhio della battaglia, Re Emeroth è nella mischia più piena. Un Pitta immenso si sta facendo strada verso di lui, e dopo pochi colpi tremendi lo raggiunge, falciando Celti come grano. I due si fronteggiano, vibrandosi a vicenda fendenti mortali ed entrambi parandoli e schivandoli con maestria.

Anche Olcan si difende da un avversario: riesce a colpirlo al braccio prima che questi possa ferirlo, intanto che tiene d’occhio i suoi uomini, soprattutto i più giovani, e li tiene uniti. Oggi è Elcain a sostituire Mochta e a fargli da scudiero.
Tra i Pitti ci sono anche degli uomini-bestia che combattono a mani nude, come degli orsi.

Si alza un forte vento, insieme al sole dell’alba, Olcan intravede in controluce un guerriero, ma è gigantesco, gli uomini gli arrivano alla cintola, gli occhi di brace, l’elmo cornuto e il mantello sul torso nudo.
Appena lo vede Olcan chiama a raccolta i suoi uomini: «Dal Re! Proteggiamo il Re!».

La Bestia avanza lentamente, ed estrae la spada puntando gli occhi sul Re. Emeroth si sente improvvisamente debole e incassa alcuni colpi sullo scudo senza reagire. Subito gli uomini intorno a lui lo difendono, dandogli il tempo di riprendersi. Intanto anche Olcan l’ha raggiunto: insieme riescono ad uccidere il grosso Pitta e ad allontanare un altro avversario. Ma la Bestia si avvicina sempre più.

«EMEROTH» gli rimbomba nella testa come un martello e i suoni della battaglia intorno si affievoliscono «EMEROTH, RE DEGLI UOMINI, DEVI PAGARE PER LE TUE COLPE»
Emeroth si sente morire, schiacciato da quella voce, ma riprende coraggio:
«Sto difendendo il mio popolo dall’aggressione del vostro!»
«SEI TU L’INVASORE CHE VUOLE IL POSSESSO DELLE NOSTRE TERRE» gli risponde la bestia, e il colpo che mena intorpidisce la mano di Emeroth e quasi gli spezza la spada. Il sangue comincia a sgorgare dalla ferita aperta sul fianco. Emeroth alza gli occhi e per la prima volta guarda il gigantesco avversario per come è davvero e lo riconosce: «Il Dio Cornuto, lo Sposo di Dana!».

La terra ha un sussulto, come la scossa di un terremoto, che non preannuncia niente di buono.

«Arriveremo in tempo?» Ainnir rivolge la domanda a Tanai, senza rallentare il galoppo. Quando giungono in cima alla collina la valle sottostante è ricolma di Pitti. Di nuovo la terra ha un sussulto, e una grande spaccatura nasce e si propaga verso la battaglia. Pitti e Celti vengono ingoiati indistintamente dalla voragine, da cui di tanto in tanto si intravedono braccia mostruose, inumane e biancastre.

Solo Tanai vede Cumain isolato dalla battaglia, con la roccia nera e cubica in mano, intanto che i vermi si prendono la loro vendetta covata in ere ed ere di attesa nelle viscere della terra.

Thursday, November 16, 2006

tronchi e nebbia

Il Dun Iboar è vicino, anche se la nebbia è fitta; Tanai è accompagnato da Ainnir in persona e da suo figlio maggiore Dallan. Hanno raccontato al bardo che il problema per cui l’hanno chiamato nasce dal figlio minore, Abban, il quale ha iniziato una inaccettabile relazione con la figlia del capoclan del Dun nemico, il Dun Iboar da cui stanno andando. Li accompagnano tre guerrieri, e quando gli capita di essere un po’ più lontano, Tanai li vede confabulare tutti tra loro: forse si stanno pentendo di aver accettato il suo giudizio.

Sentono più di un corno in lontananza e dapprima li scambiano per un’accoglienza con fanfara, poi vedono un drappello di cavalieri scendere coperti dalla nebbia. Giunti più vicini, i cavalieri si fermano sorpresi. Sono armati di tutto punto: «Sono loro, sono loro i cani Ainnir!» urlano sguainando le spade. Tanai tuona con voce imperiosa: «Fermi! Se levate le spade contro un bardo 7 volte 7 anni di maledizione su di voi!» I cavalieri si fermano esterrefatti, e uno di loro, il più anziano, Iboar in persona, lo riconosce come il bardo braccio destro di Re Emeroth.

Ma gli animi non sono placati, i due gruppetti si fronteggiano, e i nuovi venuti si rivolgono al bardo in modo sprezzante: «Parla Tanai, perché ti accompagni a questi cani Ainnir?»
«Ero venuto a giudicare una questione tra i vostri due clan, ma ora vedo che ci deve essere dell’altro. Cosa accusate a questi uomini?»
«Ignoro cosa ti abbiano raccontato, ma sei stato di sicuro ingannato. Hanno ordito un complotto, e Abban, suo figlio minore -dice Iboar indicando Ainnir- ha rapito la bella Naiti, mia figlia più giovane»
«Bugiardo- lo interrompe Iboar- mio figlio Abban si trova a nord, a caccia»

A Iboar non interessa continuare oltre la discussione, vuole tornare all’inseguimento del rapitore e dalla rapita «E tu, giudice Tanai, puoi continuare il tuo cammino fino al mio Dun, dove sarai il benvenuto, ma separati dagli Ainnir, non ti mischiare con loro»
Tanai non è d’accordo: «No, andremo tutti insieme alla ricerca dei due giovani»
Iboar protesta: «Non voglio mancarti di rispetto, ma...»
«Allora NON lo farai!» taglia corto Tanai, con un’intonazione che non ammette repliche.

Ainnir si avvicina a Tanai per ribadirgli con un sussurro che il figlio stesso gli ha detto che sarebbe partito per la caccia verso il nord, e suo figlio Abban non gli avrebbe mai mentito. Tanai si mantiene neutrale: «Non farmi prendere posizione anzitempo»

Dopo poco li trovano: un ragazzo in corsa, coi capelli lunghi color rosso fuoco e in braccio una ragazza con biondi capelli così lunghi da strusciare in terra.
C’è un baratro, e un tronco disteso che fa da ponte e unisce le due sponde: «Fermatevi, nel nome del Re» urla loro Tanai.

Il ragazzo si volta in mezzo al ponte «Ce l’abbiamo fatta! Non potete seguirci su questo ponte. Andatevene, né io né lei vogliamo tornare ai nostri clan!»
«Aspetta –cerca di convincerlo Tanai- se hai coraggio torna indietro e rimettiti al mio giudizio»
«Devi essere Tanai, visto che mio padre ha mandato a chiamare lui. Puoi tornare dal Re, perché qui un clan non avrà più l’aiuto di un figlio e un altro avrà il conforto di una figlia in meno»

La rabbia è palese nell’aria, gli inseguitori di entrambi i clan sono esterefatti. Il fratello della ragazza propone una sfida, Tanai cerca impedire che avvenga, ed è un compito fin troppo facile perché Abban, nonostante le accuse di codardia, non ha intenzione di accettarla: «Non accetto sfide dal figlio di un TRADITORE». Questo infiamma ancora di più gli animi. Solo la voce di Tanai riesce a ridurre tutti al silenzio. Con calma si avvia sul tronco, rivolgendosi ad Abban: «Raccontami il tuo punto di vista e se ti troverò dalla parte della ragione farò in modo che tu te ne vada con la benedizione degli Dei»
«Sono già in pace con me stesso, e non mi importa dell’onta di cui vorrà ricoprirmi il Clan»
«Sciocco egoista, non è con te che devi essere in pace: non pensi ai figli che avrai?»

Le parole di Tanai sembrano fare breccia nella sua granitica convinzione, ma quandi Tanai gli chiede cosa ne pensa di quella fuga la ragazza, che non ha aperto bocca e sembra anzi svenuta tra le sue braccia, Abban rilancia le sue accuse, puntando il dito verso il padre di Naiti «Tu hai ucciso il tuo stesso fratello. E persino tu –dice indicando suo padre Ainnir- sei colpevole di un tradimento macchiato di sangue!»

Le sue parole sono un tremendo affronto per entrambi i clan, che difficilmente potrà essere dimenticato o perdonato. La conversazione torna poi al prolungato silenzio della ragazza: Abban sostiene che è svenuta per l’emozione e raggiunge l’altra sponda del dirupo, dando poi un calcio al tronco.


Intanto, in tutti altri luoghi anche se non molto distanti, Re Emeroth e Olcan: una vera coincidenza e un vero piacere, visto che Olcan è uno dei guerrieri più fedeli del Re, uno di quelli che non se ne è andato scoraggiato.
«La nebbia si infittisce, mio sire, e questo favorisce i Pitti. Permettimi di andare in avanscoperta, visto che conosco bene queste zone»
Olcan parte, con l’idea, visto che c’è, di cercare anche Mochta che ancora non si è fatto vivo. Tra i suoi compagni c’è anche Elcain, l’alfiere («Vieni anche tu, che hai gli occhi buoni»).

Tutti i sensi di Olcan lo avvisano che c’è qualcosa che non va: gli si rizzano i capelli sulla nuca, forse un agguato? Non riesce a capire.
E’ Elcain ad accorgersi che il Dun Ainnir sta bruciando. Corvi e cadaveri in abbondanza, ma non sembra esserci più nessuno di vivo , né tra i Celti né tra i Pitti.
Olcan scende da cavallo: «Non è possibile che la terra chieda altro sangue» dice piantando la spada per terra. E’ in cerca di una visione, ma quella che ottiene è spaventosa: la spada si conficca in una spaccatura e del sangue sgorga copioso e nero, risalendo lungo la lama. «Estraete le armi –grida Olcan spaventato- dobbiamo andarcene di qui ed avvisare il Re!». In effetti sono già circondati da Pitti.

Riescono a fuggire per un pelo, e inseguiti da un’orda di Pitti che spuntano dal nulla della nebbia.

Thursday, November 09, 2006

l'attesa e il patto

Il fatto che Moctha non sia ancora tornato non è poi così strano, eppure Olcan è leggermente inquieto: si ricorda bene di quando promise alla Madre delle Erbe, Feilhelm, di prendersi cura di lui. Il fuoco sembra volergli comunicare un cattivo auspicio, ma non riesce a capire di preciso di cosa si tratti.
Ora si trova nell’aula dell’accoglienza del suo Dun, circondato dai parenti e ripensa a suo padre morto al fianco di Re Connor, insieme a molti altri congiunti. La famiglia è rimasta pur sempre numerosa: i suoi otto cugini sono come fratelli per Olcan, senza contare i due fratelli veri e propri, e i due zii rimasti in vita, diversi come il giorno e la notte e in effetti in continuo litigio.
Il messaggero proveniente da Dun Iboar, vicino al loro, ha portato notizie di un attacco in corso, e i preparativi per partire sono quasi conclusi, ma la notte ora è fin troppo vicina.
«Vedrete che Re Emeroth arriverà in tempo» ribadisce Olcan per l’ennesima volta rivolgendosi ai due zii.
Suo zio Maon, dalla voce tonante non è d’accordo ed ha già espresso questo concetto più volte «Dobbiamo partire ora, Olcan, convinciti e dillo tu a tuo zio»
«Non faremo niente finché non arriverà Re Emeroth» Olcan si mostra inflessibile ma lo zio scuote la testa: «Lo tiri in ballo fin troppo spesso. Se arriveremo a battaglia conclusa cosa diranno di noi e del nostro valore i canti dei bardi?»
Olcan è serio, ma controlla il tono di voce: «Ho fiducia in Re Emeroth e gli sono fedele, così come tu sei... amabile... con Cumain. Ricordati che l’onore del nostro clan è legato alla fedeltà al nostro Re», al che’ Maon non può che essere d’accordo, anche se di malavoglia: «Ma certo, ma certo... sembra di sentire tuo padre. Sei il signore del Dun, faremo come dici»
Olcan chiude definitivamente il discorso: «Se fremi per sciogliere le briglie va’ a cercare Moctha, piuttosto», ma lo zio ride, senza prenderlo sul serio; in effetti non ha mai avuto molta considerazione di Moctha, probabilmente solo perché il ragazzo è straniero e non della famiglia.

Maleya si ferma indecisa: davvero ha avuto l’ardire di rubare la pelle di lupo a suo padre, per di più sotto gli occhi di Lavai, il suo cortigiano più viscido? Bhé, le cose o non si fanno o si fanno bene, perciò ora questa pelle va portata al Re degli uomini, in fondo è quasi sei anni che le ha chiesto un modo per poter parlare con il fratello lupo.
Certo, un cimelio così in mano... vuoi non provarlo? “E poi arriverò prima”, pensa tra se’ e se’ la ragazza indossando la spessa pelliccia. Sotto forma di lupo galoppa verso il Dun.
La sensazione di lupo è forte, ma non quanto l’odore ripugnante e tremendo che emana dal Dun che esala il fetore degli uomini. Non c’è nessuno, ma la scia olfattiva non lascia dubbi: sono andati verso nord. Un’unica, rapida sosta per la cena a base di coniglio sbranato, poi raggiunge senza sforzo la colonna di uomini in marcia. Individua subito l’uomo accanto allo stendardo, con l’immensa pelliccia bianca, e si affianca al gruppo in corsa, ululando il suo richiamo e sparendo nel folto del bosco.

Emeroth vede il lupo dal comportamento anormale, e subito pensa che si tratti di suo fratello. “Ora non è il momento” pensa, e continua a cavalcare imperterrito.
Il lupo si fa rivedere, e lancia il suo richiamo una seconda volta. «Che sia un presagio, mio Re?» chiede Gharban, l’alfiere a fianco di Emeroth, il quale risponde gelido: «Lascia stare, andiamo»

Il lupo non è contento. E’ venuto a cercarlo apposta e quello neanche viene a parlargli? Lo aspetterà al guado, e il suo prezzo sarà un po’ più alto. “Prezzo di cosa?” si chiede il lupo, un po’ confuso “Al guado. Gli umani dovranno passare di lì e vedranno la mia sagoma. E se ci fosse bisogno, sentiranno i miei artigli e le mie zanne”

Gli esploratori riportano al Re la notizia «C’è un lupo fermo al guado... Sembra un demone, non è normale...» Subito Cumain si offre volontario per uccidere la bestia, ma il Re non gli concede il permesso, con suo grande disappunto: «No, andrò io. E da solo»

Intanto l’odore della notte inebria il lupo, il vento gli porta il profumo di selvaggina e le mascelle schioccano nel buio. “Stasera caccerò e affonderò le zanne nella preda... No... Sì... ma cosa dico? Lupo. No, sono una fata io... una fata!” Maleya si riscuote con uno sforzo di volontà. L’oggetto che ha rubato a suo padre si è rivelato più pericoloso del previsto e all’arrivo di Re Emeroth la ragazza si toglie la pelliccia tornando se stessa, cercando di celare il sollievo.

Emeroth è deluso: non è suo fratello, ma di nuovo quella ragazza delle fate. Il disappunto trapela nella sua voce: «Sei tu, dunque. Ho da fare ora, e non rende neanche lontanamente l’idea di quanto abbia da fare, possiamo incontrarci tra qualche giorno?»
Ma Maleya non è venuta fin lì per farsi trattare male e andarsene senza concludere: «Sono tornata per il nostro accordo, Re degli Uomini. Ti porto notizie, informazioni su tuo fratello: egli è il Signore del suo regno, che si trova ad ovest di qui, ed è in cerca del suo cuore, dato in pegno a qualcuno di potente. In cambio delle mie, voglio un’informazione da te: mio padre è il Cacciatore dei boschi. Scopri chi è mia madre»
“Il Cacciatore?” si stupisce Emeroth ripensando a suo padre Felab e al loro incontro proprio con quello Shide, ma ad alta voce dice solo: «Va bene».
Ma la ragazza non ha ancora finito: «Nessuno può entrare nel regno di tuo fratello e rimanere vivo, solo i lupi, perciò ti ho portato anche questa. E’ una pelliccia fatata che ti muterà in lupo, e non è tua, né lo sarà mai, ma te la presterò e quando avrai concluso me la riporterai. Te la cedo... ma solo in cambio di quella che ora porti indosso»
«NO! Mai»
I due si fronteggiano nella notte, entrambi orgogliosi e in silenzio. Poi il dovere verso il regno si fa strada dentro Emeroth che decide di cedere, riluttante.

Maleya lo guarda andare via e per un attimo sente l’impulso di avvisarlo della pericolosità dell’oggetto che gli ha appena consegnato “Attento a non perdere te stesso dentro il lupo!” vorrebbe dirgli. Ma si morde le labbra, ancora stizzita: “E’ un essere umano. L’ho aiutato già abbastanza, e mi ha trattato pure male. Che se la sbrighi da solo”

Emeroth fa ritorno dai suoi uomini, e il nero dei suoi vestiti senza mantello del Cinghiale bianco spicca più di un fuoco nel buio «Che avete da guardare? In marcia!»

Thursday, November 02, 2006

la quiete prima della tempesta

Moctha arriva presso Dun Iboar in condizioni pietose dopo il suo scontro con i Pitti. Il giovane guerriero è già semincoscente mentre farfuglia dell'arrivo dei Pitti. Per fortuna Tanai, quando lo vede e lo riconosce, mette la sua parola perché Mochta sia accolto e curato come si deve. E' impossibile non notare la testa del Pitto che porta legata alla cintura ma presto, prima che possa dare ulteriori spiegazioni, Mochta cade in uno stato confusionale dovuto dalla febbre alta e viene accolto dall'oblio del riposo.
Il giovane si risveglia a notte avanzata, si trova in una qualche costruzione del Dun; il cielo stellato si vede chiaramente dalla finestra aperta. Mochta vorrebbe alzarsi ma gli gira ancora la testa, arriva poi con difficoltà ad affacciarsi ma dalla sua posizione non riesce a vedere niente di più che il fitto bosco che avvolge Dun Iboar. Un lieve chiarore all'orizzonte preannuncia l'alba imminente. Nel mentre arriva una fonna nella stanza.
"Cosa fai in piedi?" domanda preoccupata.
"Dove sono i guerrieri di questo Dun? Perché tutto è così tranquillo?"
"Calmati! Il Signore di questo Dun è partito con alcuni guerrieri e gli altri stanno riposando"
"Dove si trova Tanai?" chiede Mochta sempre più allarmato
"E' partito anche lui..."
"Ma stanno per arrivare i Pitti, non possiamo farci trovare impreparati!"
"Anche prima di svenire deliravi qualcosa riguardo ai Pitti, ora calmati e bevi, la febbre era alta"
"No!" risponde imperioso Mochta "Prima dobbiamo pensare ai Pitti!"
La donna, constata la cocciutaggine del ragazzo, esce rassegnata dalla stanza per cercare uno dei figli di Iboar perché parli con Mochta. Il giovane invece è inqieto e quando si volta verso il bosco, scrutando preoccupato l'orizzonte, vede qualcosa emergere dal folto della foresta.

Maleya medita un modo per avvicinare il Re dei Lupi e alla fine si risolve per sottrarre la pelle di lupo di suo padre: il mantello infatti permette a chi lo indossa di assumere le sembianze di un lupo. Di ritorno dalla sua visita al vecchio cieco dell'albero cava, la giovane si avvicina alla casa dell'olmo, la dimora del Cacciatore. Il padre manca: come fa spesso è fuori per una caccia; Maleya però è nervosa, mai prima d'ora si era avvicinata alla propria casa con fare furtivo e tenta in tutti i modi di dissimulare il proprio nervosismo. Gli occhi delle novantanove sentinelle (i gufi che abitano i rami più bassi della casa dell'olmo) la intimoriscono e il suo nervosismo è così evidente da non passare inosservato: Libo, il capo delle novantanove sentinelle, le atterra di fronte, forse per chiederle ragione di tanto timore, ma un nuovo soggetto interviene nella scena.
"Principessa!" la saluta mellifluo Lavahi; inaspettatamente il cortigiano si trova presso la dimora del cacciatore. Maleya rimane interdetta, specie quando l'uomo comincia a farle gli onori di casa.
"Grazie per ospitarmi così gentilmente in casa mia" sottolinea gelida Maleya, poi, resa coraggiosa dall'antipatia per Lavahi gli passa oltre e fa il suo ingresso nella sua dimora.
"Desiderate lasciare un messaggio per vostro padre, principessa?" insiste Lavahi
"Quando tornerà?"
"Ah! Siete venuta davvero per lui? E non per discutere della mia proposta?"
Lavahi si riferisce alla proposta di matrimonio che egli aveva sottoposto al Cacciatore e al corteggiamento che ne era seguito. Maleya, disgustata da quell'essere tanto viscido, l'aveva seccamente rifiutato; purtroppo però Lehin si era mostrato più possibilista al riguardo ed aveva tentato di farle vedere gli aspetti, a suo avviso positivi, della faccenda. Lavahi, dal canto suo, non pare per nulla turbato dal rifiuto ed ora torna spesso alla carica con la giovane. Anche ora il cortigiano continua con le sue insistenti cure, ma Maleya sta riflettendo se non riuscirà a far volgere la situazione a suo favore.
"E' molto che siete ospite di mio padre?"
"Lehin mi lunsigna con la sua fiducia nei miei confronti, sì. Ma voi, piuttosto, quali ragioni vi hanno spinta a fare visita al vecchio ceco dell'albero cavo?"
"Ogni tanto vado a trovarlo" risponde neutra Maleya.
"Non sta bene nella vostra posizione"
Maleya vorrebbe rispondere per le rime all'uomo ma ha in mente un'altro piano: conduce così la conversazione fancedo finta di essere interessata ai pareri ed alle parole di Lavahi. Il cortigiano, incoraggiato da quella prima apertura, si fa più sicuro e audace, ma al primo accenno di confidenza Maleya si mostra sdegnata e coglie l'occasione per congedarsi da lui con il pretesto di essere stata importunata eccessivamente. Lavahi la guarda esterefatto, ma non è uno stupido e capisce immediatamente che la sproporzione della reazione di Maleya era calcolata.
Maleya intanto si fionda negli alloggi del padre frugando per trovare la pelle del lupo.

Un messaggero su di un cavallo quasi morto di stanchezza si precipita al cospetto di Re Emeroth.
"All'alba, sono arrivati i Pitti a Dun Iboar; si tratta di un esercito spaventosamente numeroso e tra loro ci sono uomini dalle dimensioni di orsi!"
Re Emeroth sa bene che Dun Iboar si trova vicino al Dun di Olkan e che Tanai, ora, si trova in quella regione.
"Partiremo domattina per la guerra" risponde risoluto tra il brusio generale. Alcuni pensano che una partenza tanto repentina sia troppo avventata vista la composizione dell'esercito avversario, ma Emeroth non li ascolta e comincia a diramare ordini per poter muovere i suoi celti il prima possibile.
Dentro di sé però il Re teme il futuro e vorrebbe leggere nei presagi che cosa gli riserva il futuro. Non volendo rischiare però preferisce che la cosa non sia pubblica. Si reca quindi da Rhian per parlare con lei.
"Sorella, ho bisogno del tuo aiuto: leggimi cosa ci aspetta".
Rhian quindi lo conduce di fronte al paesaggio collinare di Erin. Per il Re quelle colline sono un libro chiuso.
"Temo che questa battaglia nasconda insidie inaspettate, fratello" dice infine Rhian dopo aver osservato a lungo la luce del tramonto "Una forza oscura e molto potente agisce contro i celti e rischia di sbaragliarci se non sarà smascherata". Il volto di Rhian si è fatto molto pallido.
"Fai attenzione fratello mio" dice abbracciandolo "il pericolo è grande".
Emeroth sposta subito l'argomento della conversazione.
"Sai che Cumain mi ha drogato durante il nostro scontro?"
"Sì, già me l'hai detto?"
"E potrei essere ancora sotto l'influsso del suo veleno?"
"No, certo che no!" risponde Rhian osservandolo attentamente negli occhi "Ma se temi ancora per te prendi queste" e gli dona alcune erbe, capaci di guarire un uomo anche se in condizioni disperate, ed un piccolo otre "Contiene un liquore miracoloso: se credi di essere avvelenato bevilo ma non ingoiarlo, tienilo in bocca per qualche istante e poi risputalo".
Emeroth affida alla sorella la perla di Lugh, quella che il servitore coniglio gli aveva donato poi torna alle sue occupazioni.
Il Re deve guidare il Ramo Rosso alla volta del Dun Iboar verso una battaglia che si preannuncia molto dura. Gli anni passati hanno insegnato ad Emeroth a guidare velocemente il suo esercito, tanto velocemente da potersi ora permettere la speranza di giungere in tempo.

Moctha torna confusamente ai ricordi del giorno prima, all'apparizione che l'ha salvato quando i Pitti ormai l'avevano in pugno.
"Un uomo con una cicatrice simile a quella di cui parli era Re Connor" gli rivela infine Aibne, il minore dei figli di Iboar.
"Ma ora non parliamo di spettri, quanti sono i Pitti che hai visto?"
"Saranno stati una trentina, ma erano solo la coda, non ho idea di quanto grande sia l'esercito... i miei compagni? sono arrivati?"
"No, mi spiace" risponde Aibne.
Arriva quindi un servitore ed avvisa Aibne che i Pitti sono usciti dal folto della forestra. Il dispiegamento è impressionante, saranno almeno un migliaio di combattenti e si muovono per accerchiare il Dun. Aibne decide quindi di mandare tre messaggeri: uno a Re Emeroth, uno a suo padre, ospite del Dun vicino ed uno ad Olkan.
"Andrò io dal mio padre adottivo" si offre Mochta "vi aiuterà di certo, specie se a chiederglielo sarò io. E ricordatevi che è grazie a noi ed alla nostra amicizia se non siete stati già colti impreparati".
Il giovane monta quindi su un cavallo ma prima di partire si volta per spronare gli uoini che sta lasciando.
"Torneremo in forze, non perdete la speranza".
Al galoppo, mentre tenta di fare più in fretta che può, Mochta non può fare a meno di voltarsi all'improvviso boato che esplode dietro di lui: l'attacco dei Pitti è cominciato ed inonda le colline come un fiume nero.