Sunday, April 01, 2007

il cerchio di pietra

Mochta corse a perdifiato lontano dal pantano delle Ninfe. Una voce nella sua testa gli diceva che la sua corsa non aveva più senso ora che si trovava senza cavalcatura e lontano dal Dun del suo patrigno Olkan ma decise di non dargli retta.

Dopo un tempo imprecisato, distorto anche dal senso di angoscia, Mochtà si ritrovò nel piendo di un banco di nebbia. Un brivido freddo percorse la schiena sudata del ragazzo mentre sbuffi di vapore gli uscivano dalla bocca. Tutto intorno a lui i contorni cominciavano a sfocarsi e mentre Mochta appoggiava le mani alle ginocchia tremanti per riprendere fiato, ricacciò indietro nella mente tutte le storie che aveva udito di celti persisi nei boschi delle fate.

"Devo salire su un colle, sopra questo banco di nebbia, così saprò dove dirigermi" si decise infine. La zona infatti era formata da piccole valli costeggiate da colline e Mochta trovò presto una strada in salita da seguire.

Gli parve che la nebbia tendesse un po' a diradarsi e il suo cuore si sollevò un poco, ebbe però subito da pentirsi di quel pensiero di speranza. Di fronte a lui c'erano due pietre, alte quante un bambino e poco più in là altre identiche... si trattava di un cerchio di rocce. Mochta fece bene attenzione a non entrarvi e si accucciò per esaminare una pietra; il muschio era cresciuto su di essa e ci mise un po' a pulirla, poi trovò quello che temeva.
"Iscrizioni!" sibilò "E non sono ogham celtici..."
Un piccolo moto d'ansia gli nacque nel cuore mentre si rendeva conto che la faccenda si stava facendo troppo complicata.

"Giovane guerriero..." lo chiamò una voce incartapecorita dietro di lui.
Mochtà si alzò di scatto, portando la mano all'elsa della sua spada ma riuscendo a dominarsi dallo sfoderare l'arma. Sì guardò intorno ma non riuscì a vedere nessuno.
"Dove sei vecchio?" rispose Mochta in tono il più neutro possibile mentre il cuore gli batteva forte nel petto.
"Sei tu il vettore?" gli chiese la voce e Mochta si avvicinò alla sua sorgente. Il ragazzo rimase un attimo in silenzio, non sapendo bene che rispondere, poi vista la situazione disperata decise di bluffare: se almeno questo avrebbe potuto aiutarlo ora aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile.
"Certamente porto con me qualcosa di importante" disse Mochta pensando alle notizie che doveva assolutamente dare ad Olkan mentre i Pitti assalivano il Dun vicino.
Finalmente il ragazzo, avvicinandosi alla voce, vide emergere qualcosa dalla nebbia: un albero, piuttosto grande a dire il vero, con un'enorme spaccatura sul tronco, come una voragine. Dalla spaccatura usciva una testa canuta, evidentemente non umana: aveva le orecchie a punta, i lineamenti affilati e due occhi velati da due cateratte bianche.
"Una fata!" pensò Mochta sapendo che ora avrebbe dovuto essere ancora più scaltro che mai.
"Se sei tu colui che aspetto allora prendi questo" disse la fata sollevando una mano e mostrando un amuleto al vuoto. Il vecchio era evidentemente cieco.
Mochta sapeva bene che non ci si poteva assolutamente fidare delle fate, capricciose e infide creature. La situazione però gli parve così disperata che anche quell'aiuto tanto inaspettato quanto inaudito gli sembrò una chance da non lasciare intentata: ormai a piedi e perso nella nebbia, non aveva più nessuna possibilità di avvisare in tempo Olkan.

"Come pegno di questo scambio ti lascio questa" disse Mochta sfoderando la propria spada "vale quanto la mia vita perché un celta senza un'arma per combattere e morire gloriosamente non è niente". Il ragazzo infilo la propria arma nel terreno e penetrando il terreno scivolo su una pietra emettendo lo stridio tipico del metallo.
La fata, udendo quel rumore, sussultò e il suo viso si increspò mentre rifletteva.
"Tu offri ferro forgiato da mano d'uomo a me? Una fata?..." disse quindi il vecchio.
Mochta si rese conto solo ora di quanto poteva essere stato sbagliato quel gesto e si affrettò a trovare un modo per riparare.
"... ma saprò come mettere a frutto il tuo dono" concluse la fata con uno strano sorriso e mentre diceva quelle parole un giovane emerse dalla spaccatura della roccia.
Non si trattava di una fata, quello era evidente, ma aveva comunque qualcosa di inusuale, la sua pelle era chiara e i capelli bianchi e candidi come quelli di un vecchio.
Mochta rimase un attimo turbato mentre un ricordo si faceva strada nella sua mente.
Il giovane albino arrivò di fronte a lui, guardandolo con la sua espressione enigmatica e senza dire nulla estrasse la spada dal terreno.
"Tu, tu sei il figlio..." provò a dire Mochta ma la voce gli morì nella gola e il ragazzo, incurante, si era già rituffato nell'albero.

"Ora prendi questo" disse il vecchio cieco dentro l'albero, protendendo il braccio verso il ragazzo. Mochta sì avvicinò, ancora turbato dall'incontro di poc'anzi, e raccolse l'amuleto dalla mano della fata. Squadrò la collana, fatta di ossicini, laccetti di cuoio, foglie ed altri ammennicoli vari ma quando si rivolse di nuovo alla fata per accomiatarsi al suo posto non c'era più niente di più di un normalissimo albero, senza alcuna spaccatura.

Mochta ritornò sui suoi passi, verso il cerchio di pietre ancora visibile a mala pena nella nebbia. Aveva l'amuleto in mano e stentava ad indossarlo. Rimase fermo ed immobile in quella posizione per alcuni minuti, poi si voltò indietro, per valutare se davvero avrebbe fatto quel passo; sapeva che l'avrebbe fatto, ma aveva comunque paura.
Fece un respiro profondo ed indossò l'amuleto.
Ovviamente non accadde nulla.
Poi fece due passi avanti e varcò il cerchio di pietre.
Niente, non era accaduto nulla. Però in compenso la sera aveva portato con sé un gran freddo e Mochta si trovò a rabbrividire. Fece due passi avanti, nella neve, ed una vocina nella testa gli disse che la neve non doveva esserci, ma lui non ci fece troppo caso. Non ricordava da quanto tempo aveva cominciato a nevicare ma ora non aveva importanza, doveva assolutamente portare il messaggio dell'attacco dei Pitti ad Olkan.

Dei rumori di caccia attrassero la sua attenzione, poco lontano da lui.
"Caccia! Celti!" esultò Mochta finalmente la fortuna girava dalla sua in quella giornata così surreale. Poi vide un uomo correre verso di lui, mentre si guardava indietro, e capì che le cose non erano come se le aspettava. Prima che l'uomo lo potesse vedere, Mochta salì su un albero e si riparò tra i rami, in attesa di capire meglio la situazione. L'uomo si avvicinò al suo albero e quando Mochta lo vide capì certamente che si trattava evidentemente di un celta: era un uomo di corporatura robusta, con le braccia muscolose, la barba folta e nera e il cipiglio arrogante e sicuro del suo popolo.
Mochta capì subito che l'uomo era braccato.
"Hei, tu, quassù, vieni" sibilò Mochta e gli offrì la mano per aiutarlo a salire sull'albero.
Due occhi severi e pieni di autorità lo osservarono per un attimo. Poi l'uomo allungò la mano per stringere quella del ragazzo ed una volta afferrata lo strattonò tirandolo giù dal suo nascondiglio. Mochta cadde lungo e disteso sulla neve, esterefatto, e sentì l'abbaiare dei cani avvicinarsi. Sì alzò, pronto al peggio, mentre l'uomo gli porgeva una lancia, avvolta in un panno.
"Tieni. Portala a Re Emeroth, digli che questa e Gae Bulga e lui saprà come usarla. Ora va, scappa".