Sunday, April 01, 2007

il cerchio di pietra

Mochta corse a perdifiato lontano dal pantano delle Ninfe. Una voce nella sua testa gli diceva che la sua corsa non aveva più senso ora che si trovava senza cavalcatura e lontano dal Dun del suo patrigno Olkan ma decise di non dargli retta.

Dopo un tempo imprecisato, distorto anche dal senso di angoscia, Mochtà si ritrovò nel piendo di un banco di nebbia. Un brivido freddo percorse la schiena sudata del ragazzo mentre sbuffi di vapore gli uscivano dalla bocca. Tutto intorno a lui i contorni cominciavano a sfocarsi e mentre Mochta appoggiava le mani alle ginocchia tremanti per riprendere fiato, ricacciò indietro nella mente tutte le storie che aveva udito di celti persisi nei boschi delle fate.

"Devo salire su un colle, sopra questo banco di nebbia, così saprò dove dirigermi" si decise infine. La zona infatti era formata da piccole valli costeggiate da colline e Mochta trovò presto una strada in salita da seguire.

Gli parve che la nebbia tendesse un po' a diradarsi e il suo cuore si sollevò un poco, ebbe però subito da pentirsi di quel pensiero di speranza. Di fronte a lui c'erano due pietre, alte quante un bambino e poco più in là altre identiche... si trattava di un cerchio di rocce. Mochta fece bene attenzione a non entrarvi e si accucciò per esaminare una pietra; il muschio era cresciuto su di essa e ci mise un po' a pulirla, poi trovò quello che temeva.
"Iscrizioni!" sibilò "E non sono ogham celtici..."
Un piccolo moto d'ansia gli nacque nel cuore mentre si rendeva conto che la faccenda si stava facendo troppo complicata.

"Giovane guerriero..." lo chiamò una voce incartapecorita dietro di lui.
Mochtà si alzò di scatto, portando la mano all'elsa della sua spada ma riuscendo a dominarsi dallo sfoderare l'arma. Sì guardò intorno ma non riuscì a vedere nessuno.
"Dove sei vecchio?" rispose Mochta in tono il più neutro possibile mentre il cuore gli batteva forte nel petto.
"Sei tu il vettore?" gli chiese la voce e Mochta si avvicinò alla sua sorgente. Il ragazzo rimase un attimo in silenzio, non sapendo bene che rispondere, poi vista la situazione disperata decise di bluffare: se almeno questo avrebbe potuto aiutarlo ora aveva bisogno di tutto l'aiuto possibile.
"Certamente porto con me qualcosa di importante" disse Mochta pensando alle notizie che doveva assolutamente dare ad Olkan mentre i Pitti assalivano il Dun vicino.
Finalmente il ragazzo, avvicinandosi alla voce, vide emergere qualcosa dalla nebbia: un albero, piuttosto grande a dire il vero, con un'enorme spaccatura sul tronco, come una voragine. Dalla spaccatura usciva una testa canuta, evidentemente non umana: aveva le orecchie a punta, i lineamenti affilati e due occhi velati da due cateratte bianche.
"Una fata!" pensò Mochta sapendo che ora avrebbe dovuto essere ancora più scaltro che mai.
"Se sei tu colui che aspetto allora prendi questo" disse la fata sollevando una mano e mostrando un amuleto al vuoto. Il vecchio era evidentemente cieco.
Mochta sapeva bene che non ci si poteva assolutamente fidare delle fate, capricciose e infide creature. La situazione però gli parve così disperata che anche quell'aiuto tanto inaspettato quanto inaudito gli sembrò una chance da non lasciare intentata: ormai a piedi e perso nella nebbia, non aveva più nessuna possibilità di avvisare in tempo Olkan.

"Come pegno di questo scambio ti lascio questa" disse Mochta sfoderando la propria spada "vale quanto la mia vita perché un celta senza un'arma per combattere e morire gloriosamente non è niente". Il ragazzo infilo la propria arma nel terreno e penetrando il terreno scivolo su una pietra emettendo lo stridio tipico del metallo.
La fata, udendo quel rumore, sussultò e il suo viso si increspò mentre rifletteva.
"Tu offri ferro forgiato da mano d'uomo a me? Una fata?..." disse quindi il vecchio.
Mochta si rese conto solo ora di quanto poteva essere stato sbagliato quel gesto e si affrettò a trovare un modo per riparare.
"... ma saprò come mettere a frutto il tuo dono" concluse la fata con uno strano sorriso e mentre diceva quelle parole un giovane emerse dalla spaccatura della roccia.
Non si trattava di una fata, quello era evidente, ma aveva comunque qualcosa di inusuale, la sua pelle era chiara e i capelli bianchi e candidi come quelli di un vecchio.
Mochta rimase un attimo turbato mentre un ricordo si faceva strada nella sua mente.
Il giovane albino arrivò di fronte a lui, guardandolo con la sua espressione enigmatica e senza dire nulla estrasse la spada dal terreno.
"Tu, tu sei il figlio..." provò a dire Mochta ma la voce gli morì nella gola e il ragazzo, incurante, si era già rituffato nell'albero.

"Ora prendi questo" disse il vecchio cieco dentro l'albero, protendendo il braccio verso il ragazzo. Mochta sì avvicinò, ancora turbato dall'incontro di poc'anzi, e raccolse l'amuleto dalla mano della fata. Squadrò la collana, fatta di ossicini, laccetti di cuoio, foglie ed altri ammennicoli vari ma quando si rivolse di nuovo alla fata per accomiatarsi al suo posto non c'era più niente di più di un normalissimo albero, senza alcuna spaccatura.

Mochta ritornò sui suoi passi, verso il cerchio di pietre ancora visibile a mala pena nella nebbia. Aveva l'amuleto in mano e stentava ad indossarlo. Rimase fermo ed immobile in quella posizione per alcuni minuti, poi si voltò indietro, per valutare se davvero avrebbe fatto quel passo; sapeva che l'avrebbe fatto, ma aveva comunque paura.
Fece un respiro profondo ed indossò l'amuleto.
Ovviamente non accadde nulla.
Poi fece due passi avanti e varcò il cerchio di pietre.
Niente, non era accaduto nulla. Però in compenso la sera aveva portato con sé un gran freddo e Mochta si trovò a rabbrividire. Fece due passi avanti, nella neve, ed una vocina nella testa gli disse che la neve non doveva esserci, ma lui non ci fece troppo caso. Non ricordava da quanto tempo aveva cominciato a nevicare ma ora non aveva importanza, doveva assolutamente portare il messaggio dell'attacco dei Pitti ad Olkan.

Dei rumori di caccia attrassero la sua attenzione, poco lontano da lui.
"Caccia! Celti!" esultò Mochta finalmente la fortuna girava dalla sua in quella giornata così surreale. Poi vide un uomo correre verso di lui, mentre si guardava indietro, e capì che le cose non erano come se le aspettava. Prima che l'uomo lo potesse vedere, Mochta salì su un albero e si riparò tra i rami, in attesa di capire meglio la situazione. L'uomo si avvicinò al suo albero e quando Mochta lo vide capì certamente che si trattava evidentemente di un celta: era un uomo di corporatura robusta, con le braccia muscolose, la barba folta e nera e il cipiglio arrogante e sicuro del suo popolo.
Mochta capì subito che l'uomo era braccato.
"Hei, tu, quassù, vieni" sibilò Mochta e gli offrì la mano per aiutarlo a salire sull'albero.
Due occhi severi e pieni di autorità lo osservarono per un attimo. Poi l'uomo allungò la mano per stringere quella del ragazzo ed una volta afferrata lo strattonò tirandolo giù dal suo nascondiglio. Mochta cadde lungo e disteso sulla neve, esterefatto, e sentì l'abbaiare dei cani avvicinarsi. Sì alzò, pronto al peggio, mentre l'uomo gli porgeva una lancia, avvolta in un panno.
"Tieni. Portala a Re Emeroth, digli che questa e Gae Bulga e lui saprà come usarla. Ora va, scappa".

Thursday, March 08, 2007

il destino di art dasu

Olcan aiuta Maleya ad avanzare nella neve, il ricordo del luogo fatato di Kier quasi svanito nella furia del vento. Arrivano in vista della Pietra dei Re.
Anche Tanai è da quelle parti, per quelle strane coincidenze che succedono negli eventi importanti, seguito da tutta la gente del Dun: «Ci riposeremo qui, sotto la protezione della Pietra»
Quando i due gruppi si incontrano c’è un po’ di sgomento, soprattutto perché oltre a quella coincidenza se ne aggiunge un’altra: c’è anche un uomo che si erge in piedi proprio sulla Pietra.
«Quella pelliccia di lupo la conosco» sussurra Maleya riconoscendo la pelle fatata che prestò ad Emeroth, anche se l’uomo che l’indossa è profondamente diverso dall’Emeroth che si ricordava: più deciso, più imperioso, la quintessenza del Destino del Re. La notizia dilaga in un baleno «Il Re! Il Re è tornato!» e tutto la gente del Dun viene percorsa da grida di felicità e speranza.

Anche la moglie di Emeroth gli si avvicina, e per la prima volta da molti e molti anni sembra presente e viva… parla persino, lei che non aveva più pronunciato parola dall’attacco dei Pitti al suo Dun: «Emeroth! Sei tornato! Sei tornato da me!». E ad Emeroth viene da pensare in cuor suo che lei stia parlando di un’assenza ben più lunga di quest’ultimo mese in cui era alla ricerca del fratello.
«Padre! Padre!» anche il figlio del Re gli corre incontro a braccia aperte.

Le discussioni si protraggono a lungo, ciascuno ha molto da raccontare agli altri. Quando Emeroth finisce la sua parte di racconto Tanai sembra pensieroso:
«Avete mai sentito parlare di Art Dasu? Era un Re del clan McNessa – e quando tutti scuotono la testa il bardo continua – Sapete di sicuro che tra McNessa e McFinn non è mai scorso buon sangue, ma Art Dasu è rimasto nelle leggende: era destinato ad affrontare tre prove, proprio come te Emeroth, ad affrontare le Pianure della Follia, le Montagne e le profondità del Lago Senza Fondo. Ma poi non partì, perché ebbe rivelato un altro destino. Però di cosa si trattasse non lo confidò a nessuno, lo tenne segreto fino alla tomba e nulla se ne sa»
Intanto che il Clan si prepara per la notte, all’ombra della Pietra, i più influenti discutono su cosa sia più urgente fare a questo punto. Maleya si infila nella riunione decisa a parlare con Emeroth di persona: «Re degli Uomini, io non ho più una casa, né un posto dove migrare come state facendo voi. Ti chiedo ospitalità»
«Mai sia rifiutata ospitalità a chi la cerca – risponde Emeroth, che non ha mai perso di vista né la ragazza né soprattutto la pelliccia di cinghiale bianco che ella indossa – Che tu possa trovare presso di noi il rifugio che cerchi, ora e anche per sempre, se è questo che desideri. Però non posso fare a meno di notare che tu indossi qualcosa che mi appartiene»
Maleya sobbalza a tanta schiettezza, anche perché pure il Re indossa qualcosa che appartiene a lei, ma è lì per chiedere ospitalità, e agli ospiti si offrono regali, non affronti: «Dici il vero, Re Emeroth, e mi fa piacere poterti offrire qualcosa di paragonabile a ciò che mi hai appena concesso», così la pelle del Cinghiale Bianco torna al suo legittimo proprietario.
La ragazza lancia un’occhiata volutamente lunga alle pelle di lupo, ma il Re non fa commenti: in effetti ormai se la sente vicino, come parte di sé e se ne separerebbe malvolentieri.

Alla fine tutte le decisioni vengono prese: saranno dapprima inviati dei messi con il compito di radunare tutti, ma proprio tutti, i Celti alla Pietra dei Re. Quando questi saranno giunti si trasferiranno a Tara, un luogo da tempo disabitato ma ancora molto potente. Fu lì che il Primo Re di tutti i Celti si stabilì dopo aver portato il suo popolo nell’Eire. All’interno di quelle rovine l’influenza degli Uomini è forte, e forse i Fir Bolg non oseranno attaccare.
Nel frattempo, intanto che i messi adempiono al loro compito, un gruppetto di poche persone si recherà a chiedere consiglio sulla tomba di Art Dasu.

Re Emeroth, il suo bardo Tanai e quell’impertinente di Maleya si avviano così verso la tomba di Art Dasu, mentre Olcan rimane alla Pietra come riferimento per la gente del Dun. Già i pressi della tomba, un ampio cimitero, sono inquietanti, spettrali, tutti si sentono addosso gli sguardi dei morti che abitano qui.

Scende la notte. Durante il suo turno di guardia Tanai vede una figura zoppicante avvicinarsi. E’ uno spettro? Rabbrividendo il bardo alza un tizzone per diffondere un po’ di luce: è una donna, vecchia, emaciata, bianca e cieca ad un occhio. ‘‘O forse è lo spettro di una donna’’ non può fare a meno di pensare Tanai. Di sicuro lei lo ha riconosciuto:
«Tanai O’ Shea» sentenzia la vecchia con voce gracchiante.
«Sono io, signora. Ma non so a chi devo rispondere» dice il bardo facendosi coraggio nonostante l’oscurità.
«Sono la tua guida. Seguimi, ti porterò alla tomba di Art Dasu»
«Grazie signora, ma non sono il solo a cercarlo – risponde guardando i compagni ancora addormentati – in effetti siamo in tre».
La vecchia si ferma, ma quando parla sembra decisa:
«Uno solo può seguirmi, altrimenti il gigante di pietra se ne accorgerà. Il giovane Re ha già altre prove da affrontare, e non sarebbe saggio scegliere la donna che vi segue, ancora così intessuta di incantesimi di fate»
«Allora a quanto pare non rimango che io; loro hanno già affrontato i loro difficili viaggi, mi farò carico da solo di questo»
Camminando la vecchia si appoggia a Tanai: ha dita lunghe e appuntite, che si piantano scomodamente sulla spalla del bardo.
«Non mi avete ancora detto chi siete» e così dicendo Tanai la guarda negli occhi, allontanando l’oscurità alla luce della fiaccola: non è una persona viva, ora ne è sicuro. E in effetti lei risponde
«Non puoi conoscermi, non eri ancora nato. Ma sono l’unica che può portarti sulla tomba di mio marito»

Sunday, March 04, 2007

una corsa disperata

Mochta si era messo in sella al primo cavallo che aveva trovato al Dun Iboar. Non era un buon cavaliere, non aveva mai cavalcato se non di nascosto: Olcan non gli permetteva di usare i pochi preziosi cavalli di cui disponeva e un guerriero Celta non ha bisogno di una montatura per dimostrare il suo valore.

Il giovane sapeva bene di dover arrivare il prima possible visto che la guerra già infuriava alle sue spalle. Mochta spronò il cavallo nel bosco, consapevole del rischio di perdersi ma deciso a rischiare il tutto per tutto.

Una freccia fischiò vicino al suo orecchio. Giusto il tempo di voltarsi e rendersi conto, con un tuffo al cuore, di essere braccato da un piccolo gruppo di Pitti. Uno di loro era fermo e stava incoccando un'altra freccia.
Mochta fece scartare il proprio cavallo per mettersi al riparo grazie alla boscaglia. Un ramo lo colpì in pieno viso ma il giovane riusci a rimanere in sella nonostante la scorticatura alla fronte.

"Forza, forza!" pensava intensamente il ragazzo, costretto a procedere quasi al passo mentre la fitta vegetazione si trasformava in un pantano sempre più insidioso. Il cavallo infine non riuscì più a fare un passo per procedere: era affondato fino alle ginocchia.
"Dannazione" imprecò Mochta dentro di sé consapevole di avere il tempo contato.
Il cavallo sollevò una zampa per tentare di liberarsi e Mochta ebbe la chiara visione di un artiglio che graffiava l'animale e lasciava dei graffi sulla sua zampa.
In un attimo di lucida disperazione Mochta si guardò intorno, si mise in piedi sulla groppa dell'animale e si lanciò verso uno degli alberi vicini.
"Uff!" disse mentre si arrampicava portandosi sopra un ramo.
"Dai bello, ora devi farcela" pensò ardentemente il giovane, sapendo che in ballo non c'era solo il destino dell'animale.

Il cavallo riuscì infine a liberarsi da ciò che lo tratteneva e corse via, più spedito, mentre poco dietro di lui, guidati dal suo scalpitare lo seguivano i Pitti.

Mochta scese dall'albero, non poteva certo attraversare tutta la palude saltando da un ramo all'altro. Il ragazzo però era sospettoso e timoroso: l'artiglio che aveva visto fugacemente uscire dalla palude l'aveva spaventato non poco...
"Mochtaaaaa" dissero delle voci sibilanti e canzonatorie.
"Chi siete? Chi conosce il mio nome?" rispose il ragazzo cercando di mantenere il controllo.
"Sei tuuu, il figlio del grande guerriero"
Paure e desideri antichi si risvegliarono dentro il giovane, ma il suo dovere nei confronti dei suoi compagni celti occupava la sua mente insieme alla paura di essere raggirato dalle infide creature che non gli si mostravano per quel che erano.
"Non starò qui a farmi prendere in giro da delle voci, ho una missione importante da compiere" rispose di rimando.
"Però sei nel nostro territorio!"
"Fatemi passare e me ne andrò!"
"Oh... come vuoi giovane guerriero, se non hai tempo per ascoltarci non staremo a pregarti... peggio per te"
Mochta proseguì il suo percorso passando da una roccia all'altra finché gli era possibile, l'acqua si muoveva in modo bizzarro accanto a lui. Ad un certo punto dovette immergere lo stivale, non aveva altra scelta, ma nessuno lo toccò.
"Vai principe Mochta, vai incontro al tuo destino..." sibilò lontana una voce maligna, ma Mochta ormai correva a perdifiato con in testa solo il desiderio di arrivare il prima possibile a chiedere rinforzi.

Thursday, February 08, 2007

primi passi

Tanai scruta il fuoco, ma le scintille sono criptiche: dei tizzoni saltano, e il terreno trema, dei lombrichi escono dalla terra e prendono i tizzoni ormai spenti, trascinandoli sotto terra. Solo un lombrico resta a contorcersi. Tanai si alza disgustato, resistendo alla paura che lo spingerebbe a schiacciarlo. Il verme ingrassa a vista d’occhio ed infine se ne va.
I Celti mormorano tra loro, ma il bardo resta in silenzio, preoccupato.
«Domani andrò da un druido», mormora, prima di ritirarsi a riposare.
Viene raggiunto da un sonno tormentato.

Anche Maleya sta dormendo nell’aula dell’accoglienza. A volte, quando si sveglia, mette delle pezzole bagnate sulla fronte di Cumain, che è sempre più delirante. Ma stavolta Cumain la afferra all’improvviso: «Stanno per arrivare!», si alza e si precipita fuori, scalzo. La ragazza lo segue, e lo sente gridare «Eccoli! Moriremo, moriremo tutti! Tu!...» alza un dito indicando Maleya, ma lei non ha nessuna voglia di lasciarlo continuare: «Io niente e tu rientra!». Cumain ubbidisce con la coda tra le gambe. Ci sono delle ombre che entrano nel Dun, chi sono, cosa sono? Maleya si avvicina: uomini, sì, lo sono. Cinque o sei, malmessi e feriti.

Vengono accolti al Dun, da Rhian che si appresta subito a curarli, e da Tanai, visto che il Re è ancora assente. Sono molto contusi, con strane ferite da strappo. Tanai li conosce, sono del fiero Dun Aduntur, poco distante, e raccontano: «L’oscurità è calata, e i vermi sono usciti dalla terra e ci hanno attaccato. Abbiamo preso le armi, ma poi un alito fetido si è abbattuto su di noi avvelenandoci senza scampo, e i vermi ci hanno spezzato come ramoscelli. Quasi nessuno si è salvato, solo noi… non c’era nulla da fare, Tanai!». Il bardo cerca di rassicurarli come può, con la pur scarsa accoglienza possibile.

Maleya si ricorda che anche le fate parlavano dei Fir Bolg del loro alito fetido, ma per quanto si sforzi non riesce a ricordarsi come lo combattevano.
«Tanai, devi venire con me: troveremo qualcuno delle fate che ci saprà dire di più» dice la ragazza, pensando che anche se il Cacciatore non avrebbe piacere a vederla ritornare al popolo fatato potrà comunque trovare qualcuno disposto a parlare con lei. Ma Tanai non vuole allontanarsi dal Dun «Il mio posto è qui, finché non torna Re Emeroth»
«Andrò io con lei» si fa avanti Olcan.

Emeroth è di nuovo lupo. Il branco ha deciso di accompagnarlo nella sua impresa. Corrono nel bosco e a volte prendono percorsi strani, zigzagando e passando sotto i tronchi senza apparentemente motivo. Emeroth non se ne chiede il perché mentre segue passo passo i suoi fratelli.
Stanno andando dal Cieco dell’Albero Cavo, come suggerito da Ferdrad: «Lui forse saprà interpretare il tuo sogno».
Emeroth il lupo emette il suo richiamo che riecheggia per chilometri, per niente intimorito dall’odore fatato.
«Cosa vuoi, lupo?» gli risponde con voce gracchiante il Cieco, dal volto scavato e scarno che si affaccia dalla spaccatura del grosso albero.
«Sono il Re degli uomini» ulula il lupo.
«Cosa dici? Un lupo sei. Ora vattene, tempo da perdere non ho»
‘‘In effetti ha ragione, cosa ci faccio qui?’’ pensa il lupo ‘‘…no, cosa dico. Io sono davvero il Re degli uomini’’ «Sono Emeroth – dice togliendosi la pelliccia – Re degli uomini, primogenito di Felab, il Fabbro degli uomini»
«Ah – è costretto ad ammettere il Cieco – non mi ingannavi. Entra allora e cosa vuoi dimmi»
Ascoltata la richiesta, il vecchio prepara una bevanda in silenzio. «Tieni, bevi».
‘‘MAI accettare cibo dal popolo fatato, e nessuno meglio di me, e di mio padre, lo sa’’
«No grazie» risponde quindi Emeroth. Ma il cieco insiste:
«Bevi, giovane Re, così nell’oblio dei sogni cadrai ed io accompagnare ti potrò».
Ad Emeroth non resta che incrociare le dita e bere.

«Vieni Emeroth, le tre prove ti attendono» gli dice il Guerriero, ma questa volta, saldamente a cavalluccio sulla schiena di Emeroth c’è un elfo ossuto, per nulla cieco. Nella caverna tutto bene, ormai ha imparato come superarla, ma sul bordo del cornicione non sa cosa fare.
«Cieco, aiutami»
«Non ancora posso, prima vedere il sogno devo».
Emeroth allora cerca una via verso il basso. Il Cieco scuote la testa, e in effetti Emeroth perde la presa e cade come nei sogni precedenti. La donna lo attende. ‘‘E’ il lago, quello senza fondo, e lei magari è la corrente’’ gli suggerisce una voce nella testa e lui cerca di nuotare verso il basso. La donna lo accompagna accondiscendente: vede qualcosa sul fondo, ma non capisce cosa, e prima di vederlo bene la donna lo tira a sé e lo bacia. Emeroth non tenta di respingerla, solo di trattenere il respiro a sé; quasi gli esplode il cuore, come negli altri sogni, ma stavolta ce la fa a non farsi rubare tutto il fiato.

Il Cieco lo accoglie quando si sveglia «Bravo sei stato, due prove hai superato. Ma dirti questo posso: troppo poco come animale hai vissuto, sul cornicione provare a volare puoi»
‘‘Che razza di consiglio’’, pensa amaramente Emeroth, eppure non può far altro che accettarlo ed offrire qualcosa in cambio, ma cosa?
«Una cosa chiedere potrei io» gli dice affabile il vecchio.
«Parla, se potrò esaudirti» gli risponde il Re guardingo.
«Tuo figlio a studiare da me manda. I segreti del bosco gli insegnerò»
Emeroth non si ferma neanche a riflettere, gli sembra proprio una buona idea: «Va bene»

Maleya e Olcan in viaggio si rifugiano in una caverna e accendono un fuocherello.
«Guarda – fa Maleya stupefatta indicando per terra – è un germoglio di un tubero di patata! E’ di quelle commestibili, e pure buone!»
«E’ di certo un presagio. Dana ci manda un segno di speranza, dobbiamo portarlo con noi»
«E’ mio quello», dice una voce sgraziata e pungente, e la creatura che l’ha emessa, affacciata alla piccola caverna, è altrettanto inquietante.
«E’ la mia caverna, e voi mi rubate le provviste», insiste la figura, ha il naso lungo, altrettanto il mento e le orecchie, le labbra lunghe fino alle orecchie, denti lunghi, fitti e appuntiti, unghie lunghe ed adunche.
Maleya e Olcan non hanno dubbi che si tratti solo di una patetica scusa.
«Non puoi possedere un segno di Dana, e non abiti qui!», Maleya gli risponde a muso duro, scacciando la paura, perché lo ha riconosciuto come nemico di suo padre, uno del popolo non seelie.
«Allora diciamo che per uscire dovrete pagare» ghigna l’elfo lungo.
«Va bene pagheremo – dice Olcan, e Maleya vorrebbe staccargli un orecchio con un morso – ma sappi che sono un Celta, e noi paghiamo con una sola moneta» e così dicendo mette mano alla spada e la sfodera di pochi centimetri. E’ talmente determinato e fiero che la fata si spaventa, e se ne va imprecando.
«Bene – commenta Olcan un po’ scherzando e un po’ serio – se vorrai tornare, al Dun non ti rifiuteremo un pasto caldo».
Maleya è sollevata, ma le secca anche che quello sia fuggito senza un graffio «Non dovevamo concedere né pietà né pasti caldi ai nemici del mio popolo» si sfoga.
«Lo conosci?» le chiede incuriosito Olcan.
«No, non di persona, ma non bisogna essere dei geni per capire che è della corte non Seelie». Olcan non ha capito granché, ma non insiste.

Friday, February 02, 2007

il nascondiglio della pietra dei firbolg

Di nuovo quel sogno maledetto per Emeroth, ma almeno la prima prova è superata, e a forza di confrontarsi col fratello Ferdrad il Re degli uomini ha capito cosa rappresenta: è un percorso, in cui la strada non c’è e in cui bisogna attivamente cercare la via e trovarla. Chissà dove. Chissà quando.
E finalmente gli è venuto in mente chi sia il guerriero che lo accompagna sempre nei sogni: sì, conosceva le sue armi, anche se non l’ha mai veduto in volto, infatti è il guerriero che Emeroth e Cumain trovarono morto e seppellirono, lungo il percorso sotterraneo fatto per recuperare il pentolone di Taron. «Il nobile guerriero a cui quel cane di Cumain ha rubato la Pietra dei Vermi, precipitandoci tutti in questo inferno», non può fare a meno di pensare digrignando i denti e sputando.

Neve e freddo per Tanai e Maleya. «Di qua» urla uno dei Celti cacciatori, ma il bardo ha visto qualcosa di diverso tra gli alberi dietro di loro.
«Tanai, sbrigati – gli si rivolge Maleya – I cacciatori stanno andando e non ci aspetteranno», ma poi lo vede anche lei: è qualcosa, no anzi, qualcuno, che li spia.
Si allontanano dal gruppo di caccia e scalano il colle: la figura ha le vesti sciolte e trasandate e va a zig zag come se fosse pazzo. Maleya scatta in avanti e lo raggiunge senza troppa difficoltà: lo atterra saltandogli addosso. Lui estrae un pugnale, al che lei risponde prendendolo a pugni senza complimenti. Tanai arriva un po’ affannato per la corsa, e pulisce alla strana figura il viso con la neve.
«No, non è possibile!» mormora sgomento: è Cumain. Ed è completamente pazzo, anche se questo non gli impedisce di riconoscere il bardo:
«Tanai Tanai!!! TU, TU avresti DOVUTO impedirmelo».
«Vedo che alla fine ti sei visto allo specchio – gli risponde Tanai, senza sapere se sarà o no compreso – e quello che hai visto non ti è piaciuto»...

Cumain è seduto con lo sguardo perso vicino al fuoco. Alcuni nel Dun sono allibiti, è ridotto così male che non riescono a credere che sia lui. Ma Tanai lo conosceva bene, e nessuno osa mettere in dubbio la sua parola. Il morale è molto basso.

Il bardo si rivolge a Cumain in modo severo:
«Cosa ne hai fatto della pietra, stolto?».
Quello si rincantuccia, quasi piange, ma in qualche modo capisce:
«La Pietra! Non lo so! Non ce l'avevo... non ce l'ho!», ma Tanai lo incalza impietoso:
«Tu la custodivi, che ne hai fatto? Parla!»
«No, io non la volevo! Tu la volevi – ma poi si ritrae, cominicia ad urlare – Me ne sono liberato! L'ho gettata via, l'ho nascosta, così nessuno farà di nuovo il mio errore!»

Maleya, che assisteva in silenzio, interviene: secondo lei l'evidente pazzia di Cumain lo rende molto vicino a Dana, persino più affine delle fate stesse, così come è per tutti i matti. «Dobbiamo sfruttare il suo legame, e risalire il filo fino a trovare Dana. Ne sono convinta – continua – E poi lui ha portato a tutto questo perciò lui sarà il primo passo verso la fine dell'Inverno». Tanai scuote le testa, poco convinto.

Un bambino tira le vesti del druido:
«Guarda, Cumain sta versando la zuppa. Posso farlo anch'io?», una donna si appresta a pulire il piccolo disastro imprecando, ma Tanai la ferma: Cumain sembra quasi in trance, e con le dita traccia ghirigori nella brodaglia per terra. Tanai osserva assorto:
«Quelle forme... è il profilo del monte del Gigante Dormiente»
«Lo conosci?» lo interrompe Maleya quasi saltellando di gioia.
«Sì, lo chiamano così perché sembra un gigante disteso. Non ci sono mai stato, né conosco nessuno che ci sia mai arrivato davvero... Anche perché per arrivarci bisogna prima attraversare le Lande Silenti, popolate di spiriti, e si dice che qualunque umano le attraversi perda la ragione. Inoltre il monte del Gigante Dormiente non ha strade per essere attraversato, perciò nessuno sa cosa c'è dopo»
«Io lo so, le fate lo sanno: non so come fanno a saperlo, ma dicono che ci sia un lago senza fondo» gli risponde Maleya con la fronte corrugata nello sforzo di ricordare.

Thursday, January 25, 2007

l'ospitalità e le prove

‘‘Finalmente ecco il villaggio degli uomini’’ pensa Maleya vedendo il profilo delle staccionata del Dun. Fuori le guardie di sentinella la fermano senza tanti complimenti, riconoscendola come uno spirito, ma per fortuna riesce a far chiamare Tanai, che ha sentito parlare di lei dal Re e che la fa entrare.
Il Dun è molto più desolato di come se lo ricordava, naturalmente, e non c’è il Re a cui chiedere ospitalità. Molti la guardano male, e più di tutti lo zio di Olcan, il guercio. Solo un altro intervento di Tanai la tiene al sicuro per un po’: «A nessuno sia mai rifiutata ospitalità per un giorno e una notte».
‘‘Un po’ poco, col freddo che fa fuori’’ pensa Maleya, ma se lo tiene per sé.

Entra una signora, con dei panni da bollire nel pentolone accanto al fuoco: «Una donna – afferma gentile ma decisa guardando la nuova arrivata – Ci potrebbe far comodo»
«Ti aiuto volentieri. Cosa posso fare?» le risponde pronta Maleya.
«Aspetta che i panni siano bolliti, non farli bruciare e poi portameli di là, così io posso tornare subito al parto di Oria»
Quando i panni sono pronti la fata va a raggiungere le altre donne, in una casa dove tutte (e sole) le donne del villaggio sono radunate attorno ad Oria. E’ la moglie di Gerban l’araldo, ed è nel bel mezzo di un travaglio che sembra molto doloroso.
«Grazie dei panni – la accoglie la donna – Io sono Rhian»
«Sì, ti conosco, sei la ragazza di Niallham. Ma sei invecchiata un sacco! Io comunque sono Maleya» la ragazza fata non si accorge neanche di essere stata scortese, e Rhian ha in effetti ben altro a cui pensare. Senza prestare attenzione alla strana nuova arrivata Rhian continua imperterrita il suo lavoro di levatrice: «Il cordone è arrotolato intorno al collo. Fate tutte vedere le mani… Tu – dice indicando Maleya – tu hai le mani più piccole: mettile dentro, trova la testa e il cordone. Datti una sciacquata, prima».
Superata la sorpresa, e anche un po’ il disgusto iniziali, Maleya non si tira indietro: Oria soffre un po’, ma la fata trova il cordone e lo srotola. Dopo ogni cosa si aggiusta, e il parto va per il meglio, e la notizia viene portata agli uomini tra le esultazioni generali, e i complimenti a Gerban.
Intanto Rhian, nella casa delle donne ringrazia Maleya «Sei stata fondamentale», stando ben attenta a farsi sentire da tutte le altre. Le donne annuiscono tutte, ed ora Maleya è certa che il Dun le offrirà ospitalità ben più di ‘‘un giorno e una notte’’.

Ora che la situazione è calma molte donne le rivolgono sorrisi: «Sembri intirizzita e, senza offesa, piuttosto lercia. Un bel bagno caldo è quel che ti ci vuole». Le preparano un bagno in una tinozza e insistono perché si spogli. ‘‘Non posso se restate anche voi a guardarmi’’ vorrebbe poter dir loro Maleya, ma sa che parlare dei propri Geasa porta quasi altrettanto male che romperli. Rimanare a far il bagno con qualcosa addosso senza passare per matta non è così semplice («Così si lava anche l'abito, si fa prima, no?»), ma in qualche modo riesce a cavarsela senza offendere nessuna.

Emertoth è nudo nella tempesta. Il guerriero lo invita a seguirlo, ma subito Emeroth lo perde di vista. Lo cerca, e trova qualcuno, anzi trova qualcosa: una pietra gli ferisce le mani. «Ben fatto» annuisce il guerriero. «Chi sei?» vorrebbe chiedergli Emeroth, ma già il Celta non c’è più e il Re è in bilico sull’orlo di un cornicione. Fa un passo volutamente nel vuoto, lasciandosi cadere. Cade come se ci fosse dell’acqua, e c’è la donna ad attenderlo e ad attirarlo a sé. La colpisce per allonarla.

«Devi superare ancora due prove» la voce del guerriero è l’ultima cosa che sente prima di svegliarsi di soprassalto. Suo fratello Ferdrad si sta prendendo cura di lui, con delle pezze bagnate: «Devi capire i tuoi sogni. E’ importante, fratello. Posso portarti da chi potrà aiutarti, ma non è un alleato, né mi deve un favore. Dovrai dargli qualcosa in cambio». Emeroth accetta, anche perché da solo non riesce proprio a dare un senso a ciò che sogna. ‘‘Forse è destino che non superi le prove’’ gli viene da pensare, e questo dubbio pesa come un macigno in tutto ciò che fa.

Vista la prolungata assenza del Re, Maleya si decide a parlare con Tanai, che è quello che più le sembra in carica: «Dobbiamo trovare Dana, voi uomini… cioè noi… insomma!». Nell’ascoltarla Tanai ha come una visione: per un attimo lei gli ha ricordato Connor… ma perché mai? Maleya non se ne accorge e continua a raccontare delle fate, del terribile momento che stanno vivendo. Resta sul vago solo sull’esatta natura dei loro attuali nemici, il popolo non seelie, di cui non cita neanche il nome.

Thursday, January 18, 2007

incubi e rivelazioni

Maleya accompagna il padre, in missione con il cortigiano Lavai; i due tuatha sono a malapena riconoscibili, invecchiati e rugosi, ombre di sé stessi. In particolare Lavai sembra stare in piedi per pura forza di volontà, peraltro quasi tutta derivante dal Cacciatore: «Sei il mio servitore, non mi puoi abbandonare».
Lein il Cacciatore sta visitando tutti i suoi fedeli che stanno lasciando il suo regno. Arrivati ad un ruscello che si incunea in una spaccatura Lein si annuncia ad alta voce «Kier, sono giunto, sono il tuo Signore»
«Cosa vuoi? – la voce in risposta è fioca, e proviene da un albero – Lasciami in pace»
Maleya si ricorda di Kier, era il Guardiacaccia di suo padre, un tuatha deciso, gioviale e pungente. Ora è ridotto ad essere un vecchio albero nodoso.
«E’ così che accogli un vecchio amico? – riprende Lein – Il tuo Signore?»
«Lasciami in pace... Dana soccombe, non c’è speranza per noi».
Maleya si intromette: «E’ solo un ciclo, Dana tornerà. Come sempre».
Il Cacciatore fa le presentazioni, più che altro per formalità: «Conosci mia figlia, Kier? E’ molto tempo che non la vedi, mi pare» e l’Albero si fa pochi scrupoli a rispondere «Non è tua figlia, lo sai bene.»
A Maleya si rizzano i peli sulla nuca, ma non è tempo di pensare a questo ora: suo padre, stizzito, se ne sta andando, lasciando Kier al suo destino. Lo richiama indietro, chiedendogli di aspettarla, e poi si rivolge lei stessa all’Albero:
«Tre anni di inverno, cosa saranno mai per te che ne hai visti 100 e più di 100?»
«Non temo ciò che è stato ma ciò che sarà: Dana è morta. E tu non sei una di noi, non sei Figlia di Dana perciò non puoi parlare per lei. Già da prima soccombeva agli uomini, ora è morta e non risorgerà più»
«Forse gli uomini la combattevano, ma ora faranno bene a cercarla anche loro, o moriranno come noi» «Ah – la deride Kier – e sarai tu ad andarglielo a dire?»
«Sì! Perché no? E tu hai il coraggio di accompagnarmi?»
«Non posso – si lamenta l’Albero – questa è la tomba che ho scelto per me» ma quando padre e figlia se ne vanno l’Albero sembra pensieroso.

Solo e nudo, braccato al buio, Emeroth fugge senza più respiro coi polmoni che gli esplodono. E’ riuscito a seminarlo? No, un’ombra si muove dietro di lui. Corre, scappa, la morte è a un passo, si volta, solo un istante prima di essere raggiunto e ucciso, ma mette un piede in fallo e cade da un precipizio.

Emeroth si sveglia urlando. Ormai gli succede da molte notti, è sistematico. E’ confuso, non sa dove cercare le risposte a delle domande che non conosce. Basta: è ora di cercare suo fratello, tra i lupi Figli di Dana. Non ha mai osato indossare la pelliccia quando era ancora in forze, e si chiede se non sia una pazzia tentare adesso, ma non vede altre strade.
Si confida solo con Tanai, il suo fidato Bardo, gli lascia un testamento orale e parte, non visto nella notte, scavalcando la finestra come un ladro.
«Lo aspetteremo un mese e un giorno» fa Tanai agli uomini del Dun preoccupati dell’assenza del Re. E’ chiaro che ora tutti contano sul Bardo.

Da lupo si sta piuttosto bene: la pelliccia è calda e i pensieri sono più leggeri e meno preoccupanti. Le cacce però sono ben magre. Giorni e notti scorrono senza posa: almeno gli incubi hanno smesso di tormentarlo. Si dirige verso dove, a suo tempo, gli aveva indicato Maleya, e non fa fatica a trovare la strada, né tanto meno a capire di essere arrivato nel posto giusto. La sua essenza di lupo non può ingannarlo: è nel Regno di suo fratello ora, e qualcuno lo sta già tenendo d’occhio.
Un lupo grigio esce dalle tenebre, guardandolo come se fosse l’ultimo cucciolo della cucciolata
«Che vuoi straniero? Non sei benvenuto qui, nel nostro territorio».
Emeroth cerca di essere amichevole, ma l’altro insiste con fare minaccioso: «Non mi hai capito? Vattene!». Ad Emeroth non resta che caricarlo a testa bassa.
Si fanno male a vicenda, ma prima che possano continuare a ferirsi interviene una voce autorevole «Nuddel, basta». Il lupo grigio si ritira, scoccando comunque uno sguardo minaccioso ad Emeroth. Il Signore dei Lupi è evidentemente Ferdrad, e riconosce suo fratello senza esitazione:
«Emeroth, sei... inaspettato»
«Sono tempi duri» gli risponde il Re degli uomini.
«E’ vero, ma non per colpa nostra... Comunque sei mio ospite»

«Maleya, fammi compagnia in un brindisi». E’ la prima volta che suo padre le rivolge un invito del genere. Sono di nuovo entrambi a casa, riparati al sicuro, o almeno abbastanza al sicuro. Lein spiega a sua figlia che la notte è più pericolosa che mai, fuori, perché ormai regna la Corte Non-Seelie, con il loro rancore e i loro propositi di vendetta. Molto tempo addietro le Fate fecero un consiglio e decisero di accettare Dana come loro Signora e Protettrice, contro gli uomini che stavano avendo la meglio. Ma un gruppo invece si rifiutò di servire Dana, e fu esiliato, costretto all’oscurità e all’isolamento. Divennero la Corte Unseelie. Con l’indebolimento di Dana sono tornati, dopo tutti questi anni, e ora si raccolgono attorno ad un nuovo capo, Kailte, che è spuntato dal nulla e di cui non si conosce il passato.
«Ma sto divagando, non è vero?» sussurra Lein, prendendo un altro sorso dal bicchiere
«Sai – continua – Se tu fossi mia figlia sarei molto fiero di te»
Maleya è scioccata. Lo sapeva. L’aveva sempre saputo. Ma saperlo davvero è un’altra cosa.
«Mi devi dire tutto – lo interrompe con gli occhi lucidi – ma prima che cominci io voglio farti sapere due cose: sono molto orgogliosa di essere TUA figlia e TU sei mio padre, al di là di ogni cosa e al di là di ogni vincolo di sangue»
In una scena piuttosto commovente il Cacciatore rivela a Maleya che ella è figlia di Connor Mc Finn, defunto Re degli Uomini, sottratta con l’inganno per rivalsa verso gli umani.
«Maleya, devi andare via da qui, devi tornare dai tuoi fratelli. Non posso tenere difesa questa dimora contro l’inverno e contro gli Unseelie se non per qualche luna ancora. E tu già sapevi di dover andare, o non avresti parlato in quel modo a Kier»
«Allora andrò – risponde la ragazza, ormai donna – ma ti prometto che tornerò in forze, con Dana in persona se necessario. Che non ti lascerò alla corte Unseelie. Un brindisi a Connor Mc Finn, Re degli uomini, e a Lein il Cacciatore, mio padre»

Intanto Emeroth parla col fratello Ferdrad. Cerca un’alleanza per una guerra aperta contro i Fir Bolg, i vermi della terra, con la speranza di coinvolgere come alleati, oltre ai lupi, anche il popolo fatato. Ma Ferdrad è scettico: «E’ una follia, non abbiamo speranza, perché in un confronto diretto hanno già vinto una volta. Non so cosa potremo fare, fratello... aspetto un segno, un presagio». La notte li raggiunge che la discussione non è ancora finita, e il sonno li coglie per sfinimento.

Di nuovo l’incubo. Ancora e ancora fuggirà e cadrà nel vuoto. No, basta, con un atto di coraggio o pazzia Emeroth si ferma per affrontare il suo inseguitore. Questi si rivela essere un guerriero, sicuramente un Celta, e quella spada, quello scudo, ricordano a Emeroth qualcuno... ma chi? Il guerriero non gli lascia tempo per le riflessioni: «Emeroth, Re degli uomini, tre prove dovrai affrontare prima di morire. Seguimi». Il giovane fa solo un passo verso il guerriero, ma già la scena cambia completamente: è buio pesto, come in una caverna, però nascosto nell’ombra c’è qualcuno che si fa beffe di lui e non si fa trovare. Emeroth brancola a caso e trova un’uscita, ma la luce non rischiara l’interno. L’uscita dà su un precipizio, e fuori c’è il Guerriero che sembra attenderlo. L’esile cornicione si stacca all’improvviso ed Emeroth precipita verso la morte. In fondo al burrone c’è di nuovo il guerriero che guarda oltre di lui, alle sue spalle. Il Re si volta e vede che c’è una donna, con le mani fredde e impalpabili; lo attira a sé, lo bacia, con le vesti bagnate... dopo poco a Emeroth manca il respiro, ma la donna è forte e non lo lascia andare. Emeroth si sente morire, soffocato.

Emeroth si sveglia di soprassalto, accanto al fratello lupo. Ha la precisa sensazione di aver affrontato tutte e tre le prove e di averle fallite tutte. Sveglia Ferdrad e gli racconta ogni cosa. Insieme capiscono che la prima prova, il buio che nasconde qualcuno, è come trovare un posto: sapere cosa cercare e dove cercarla. «E’ un inizio – mormora Emeroth – ma è un po’ poco»