Thursday, February 08, 2007

primi passi

Tanai scruta il fuoco, ma le scintille sono criptiche: dei tizzoni saltano, e il terreno trema, dei lombrichi escono dalla terra e prendono i tizzoni ormai spenti, trascinandoli sotto terra. Solo un lombrico resta a contorcersi. Tanai si alza disgustato, resistendo alla paura che lo spingerebbe a schiacciarlo. Il verme ingrassa a vista d’occhio ed infine se ne va.
I Celti mormorano tra loro, ma il bardo resta in silenzio, preoccupato.
«Domani andrò da un druido», mormora, prima di ritirarsi a riposare.
Viene raggiunto da un sonno tormentato.

Anche Maleya sta dormendo nell’aula dell’accoglienza. A volte, quando si sveglia, mette delle pezzole bagnate sulla fronte di Cumain, che è sempre più delirante. Ma stavolta Cumain la afferra all’improvviso: «Stanno per arrivare!», si alza e si precipita fuori, scalzo. La ragazza lo segue, e lo sente gridare «Eccoli! Moriremo, moriremo tutti! Tu!...» alza un dito indicando Maleya, ma lei non ha nessuna voglia di lasciarlo continuare: «Io niente e tu rientra!». Cumain ubbidisce con la coda tra le gambe. Ci sono delle ombre che entrano nel Dun, chi sono, cosa sono? Maleya si avvicina: uomini, sì, lo sono. Cinque o sei, malmessi e feriti.

Vengono accolti al Dun, da Rhian che si appresta subito a curarli, e da Tanai, visto che il Re è ancora assente. Sono molto contusi, con strane ferite da strappo. Tanai li conosce, sono del fiero Dun Aduntur, poco distante, e raccontano: «L’oscurità è calata, e i vermi sono usciti dalla terra e ci hanno attaccato. Abbiamo preso le armi, ma poi un alito fetido si è abbattuto su di noi avvelenandoci senza scampo, e i vermi ci hanno spezzato come ramoscelli. Quasi nessuno si è salvato, solo noi… non c’era nulla da fare, Tanai!». Il bardo cerca di rassicurarli come può, con la pur scarsa accoglienza possibile.

Maleya si ricorda che anche le fate parlavano dei Fir Bolg del loro alito fetido, ma per quanto si sforzi non riesce a ricordarsi come lo combattevano.
«Tanai, devi venire con me: troveremo qualcuno delle fate che ci saprà dire di più» dice la ragazza, pensando che anche se il Cacciatore non avrebbe piacere a vederla ritornare al popolo fatato potrà comunque trovare qualcuno disposto a parlare con lei. Ma Tanai non vuole allontanarsi dal Dun «Il mio posto è qui, finché non torna Re Emeroth»
«Andrò io con lei» si fa avanti Olcan.

Emeroth è di nuovo lupo. Il branco ha deciso di accompagnarlo nella sua impresa. Corrono nel bosco e a volte prendono percorsi strani, zigzagando e passando sotto i tronchi senza apparentemente motivo. Emeroth non se ne chiede il perché mentre segue passo passo i suoi fratelli.
Stanno andando dal Cieco dell’Albero Cavo, come suggerito da Ferdrad: «Lui forse saprà interpretare il tuo sogno».
Emeroth il lupo emette il suo richiamo che riecheggia per chilometri, per niente intimorito dall’odore fatato.
«Cosa vuoi, lupo?» gli risponde con voce gracchiante il Cieco, dal volto scavato e scarno che si affaccia dalla spaccatura del grosso albero.
«Sono il Re degli uomini» ulula il lupo.
«Cosa dici? Un lupo sei. Ora vattene, tempo da perdere non ho»
‘‘In effetti ha ragione, cosa ci faccio qui?’’ pensa il lupo ‘‘…no, cosa dico. Io sono davvero il Re degli uomini’’ «Sono Emeroth – dice togliendosi la pelliccia – Re degli uomini, primogenito di Felab, il Fabbro degli uomini»
«Ah – è costretto ad ammettere il Cieco – non mi ingannavi. Entra allora e cosa vuoi dimmi»
Ascoltata la richiesta, il vecchio prepara una bevanda in silenzio. «Tieni, bevi».
‘‘MAI accettare cibo dal popolo fatato, e nessuno meglio di me, e di mio padre, lo sa’’
«No grazie» risponde quindi Emeroth. Ma il cieco insiste:
«Bevi, giovane Re, così nell’oblio dei sogni cadrai ed io accompagnare ti potrò».
Ad Emeroth non resta che incrociare le dita e bere.

«Vieni Emeroth, le tre prove ti attendono» gli dice il Guerriero, ma questa volta, saldamente a cavalluccio sulla schiena di Emeroth c’è un elfo ossuto, per nulla cieco. Nella caverna tutto bene, ormai ha imparato come superarla, ma sul bordo del cornicione non sa cosa fare.
«Cieco, aiutami»
«Non ancora posso, prima vedere il sogno devo».
Emeroth allora cerca una via verso il basso. Il Cieco scuote la testa, e in effetti Emeroth perde la presa e cade come nei sogni precedenti. La donna lo attende. ‘‘E’ il lago, quello senza fondo, e lei magari è la corrente’’ gli suggerisce una voce nella testa e lui cerca di nuotare verso il basso. La donna lo accompagna accondiscendente: vede qualcosa sul fondo, ma non capisce cosa, e prima di vederlo bene la donna lo tira a sé e lo bacia. Emeroth non tenta di respingerla, solo di trattenere il respiro a sé; quasi gli esplode il cuore, come negli altri sogni, ma stavolta ce la fa a non farsi rubare tutto il fiato.

Il Cieco lo accoglie quando si sveglia «Bravo sei stato, due prove hai superato. Ma dirti questo posso: troppo poco come animale hai vissuto, sul cornicione provare a volare puoi»
‘‘Che razza di consiglio’’, pensa amaramente Emeroth, eppure non può far altro che accettarlo ed offrire qualcosa in cambio, ma cosa?
«Una cosa chiedere potrei io» gli dice affabile il vecchio.
«Parla, se potrò esaudirti» gli risponde il Re guardingo.
«Tuo figlio a studiare da me manda. I segreti del bosco gli insegnerò»
Emeroth non si ferma neanche a riflettere, gli sembra proprio una buona idea: «Va bene»

Maleya e Olcan in viaggio si rifugiano in una caverna e accendono un fuocherello.
«Guarda – fa Maleya stupefatta indicando per terra – è un germoglio di un tubero di patata! E’ di quelle commestibili, e pure buone!»
«E’ di certo un presagio. Dana ci manda un segno di speranza, dobbiamo portarlo con noi»
«E’ mio quello», dice una voce sgraziata e pungente, e la creatura che l’ha emessa, affacciata alla piccola caverna, è altrettanto inquietante.
«E’ la mia caverna, e voi mi rubate le provviste», insiste la figura, ha il naso lungo, altrettanto il mento e le orecchie, le labbra lunghe fino alle orecchie, denti lunghi, fitti e appuntiti, unghie lunghe ed adunche.
Maleya e Olcan non hanno dubbi che si tratti solo di una patetica scusa.
«Non puoi possedere un segno di Dana, e non abiti qui!», Maleya gli risponde a muso duro, scacciando la paura, perché lo ha riconosciuto come nemico di suo padre, uno del popolo non seelie.
«Allora diciamo che per uscire dovrete pagare» ghigna l’elfo lungo.
«Va bene pagheremo – dice Olcan, e Maleya vorrebbe staccargli un orecchio con un morso – ma sappi che sono un Celta, e noi paghiamo con una sola moneta» e così dicendo mette mano alla spada e la sfodera di pochi centimetri. E’ talmente determinato e fiero che la fata si spaventa, e se ne va imprecando.
«Bene – commenta Olcan un po’ scherzando e un po’ serio – se vorrai tornare, al Dun non ti rifiuteremo un pasto caldo».
Maleya è sollevata, ma le secca anche che quello sia fuggito senza un graffio «Non dovevamo concedere né pietà né pasti caldi ai nemici del mio popolo» si sfoga.
«Lo conosci?» le chiede incuriosito Olcan.
«No, non di persona, ma non bisogna essere dei geni per capire che è della corte non Seelie». Olcan non ha capito granché, ma non insiste.

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